Giuseppe Bergomi è uno scultore bresciano annoverato tra i migliori artisti in Europa e nel mondo.
Lo abbiamo incontrato in occasione delle celebrazioni conclusive di Wondertime, manifestazione fortemente voluta da Rossella Pezzino De Geronimo a cui a partecipato con le sue opere, e noi, spietati, gli abbiamo chiesto di rispondere alle nostre domande e lui, con grande cortesia, non ha
declinato l’invito.
Parliamo delle origini, un tema sempre difficile per qualunque artista. Trovare la propria voce è faticoso. Qual è stato il tuo percorso?
Ho iniziato come pittore. Fin da ragazzo dipingevo. A quindici anni frequentavo la scuola serale d’arte dell’Associazione Artisti Bresciani (AAB) e lavoravo durante il giorno in un officina. Venni così a contatto
con il mondo artistico bresciano verso la fine degli anni sessanta; anni di grande interesse per la pittura. L’ AAB era luogo con la città e le altre gallerie private, erano anni di grande fermento, si tenevano mostre,
concerti con grande e continua partecipazione della collettività. Fu in quel periodo che maturai ll proposito di iscrivermi all’ Accademia di Brera.
Quando inizi a studiare pittura in modo regolare?
Solo nel ’73 tornai ad essere studente a tempo pieno. Con il primo anno di accademia cominciai a dipingere ogni pomeriggio ( la mattina frequentavo le lezioni). Sulla carta, Brera era una delle istituzioni artistiche più
prestigiose, ma quello che verificavo non corrispondeva a quell’alta formazione a cui aspiravo. La didattica vera e propria era ridotta a lumicino: disegnare, dipingere, la copia dal vero o dalla modella erano considerate banali se non ridicole. Gran parte dei miei compagni facevano il dripping alla Pollock ( i più classici) gli altri fasciavano bastoncini attenti alla da poco nata Arte Povera. Mentre io volevo dipingere, volevo la bella pittura (ora so che non esiste, ma allora non ancora). Non ero proprio nel posto più adatto.
Fu un’esperienza totalmente negativa?
Naturalmente no. Brera mi ha dato modo di incontrare persone di grande qualità: il filosofo Francesco Leonetti (fondatore di Officina con Pasolini); Luigi Veronesi che insegnava cromatologia; storici come Raffaele Degrada
e Guido Ballo, ma, nello specifico artistico, quasi niente.
Cosa ha fatto allora la differenza?
Ero a Milano dove potevo vedere i musei, le grandi mostre di Palazzo Reale, della Permanente della Rotonda della Besana, oltre alle gallerie private, la “32” di Alfredo Paglione, il Fant Cagnì di Roncaglia, la galleria di
Philippe Daverio e tante altre. Nell ottobre del 74, vidi alla Besana, la grande mostra intitolata Iperrealisti americani e realisti europei. Fu uno dei momenti più importanti per la mia formazione. Incontravo di nuovo la pittura. In questa mostra mi si prospettava la possibilità di affrontare la realtà attraverso la pittura mediata dalla fotografia. I dipinti degli Iperrealisti erano per me una grande sorpresa, anche se non riuscivo ad aderirvi del tutto, ma la problematica che ponevano mi sembrava ricca di potenzialità. Comperai così un episcopio per ingrandire le immagini, un aerografo per sostituire in parte i pennelli e recuperai le foto di famiglia come tema iconografico. Fu il mio vero apprendistato pittorico durante gli anni dell’accademia. L’altra grande mostra a cui fui debitore, fu La ricerca dell’identità, curata da Gianfranco Bruno a Palazzo Reale. Vidi per la prima volta Uomo e donna, le sculture in legno dipinto e il disegno a matita , Stanza da bagno di Antonio Lopez: opere che influenzarono tutti quelli della mia generazione che volevano occuparsi di figurazione. In quel periodo il mio interesse per la pittura era totalizzante, infatti mi impressionò più il disegno che la scultura. Per chiarirmi del tutto le idee sull’iperrealismo, scelsi questo come argomento della mia tesi. Andai a Parigi a trovare Gérard Gasiorowski che, dei pittori, era quello che più mi interessava. La sua pittura proponeva immagini tratte da fotografie di banali scene quotidiane che il pittore rielaborava in grandi tele in bianco e nero. Ma quando lo incontrai, nel ‘ 77, mi mostrò i suoi nuovi lavori, che consistevano in macchinine e aereoplanini bruciacchiati ed esposti sul pavimento dello studio. Questo mi spiazzò completamente, avevo con me le fotografie dei miei dipinti ma non ebbi più il coraggio di mostrarglieli.
Di cosa avete parlato?
Mi parlò tutto il pomeriggio dell’ arte in generale, dei pittori della Scuola di Barbizon come di “mauvais peintres”. Parlò di “Art Pompier”. Io lo ascoltavo in silenzio, non osavo controbattere. Non mi convinse ma mi fece capire che la pittura legata alla fotografia se non ha una forte componente concettuale, non ha senso.
Eri stato tu a volerlo incontrare. Cosa cercavi?
Cercavo di capire. Avevo voglia di pittura, pensavo di trovarla, anche partendo dalla sua. Gasiorowski mi ha aperto un’altra prospettiva. Iniziai a capire in che equivoco ero caduto e, cioè, che partire dalla fotografia per dipingere è come dice Arika, un altro grande artista (la cui opera incontrerò anni dopo), «infilare la testa in un nodo scorsoio e non saperlo». Compresi come la fotografia fosse la negazione del processo pittorico e che la “Bella pittura” non esiste se non come il risultato di un autentico percorso estetico.
Eri pronto a cambiare direzione?
Non ancora, non è così automatico. Lo capii come concetto, ma interiorizzarlo era un’altra cosa. Per altri due anni cercai di dipingere con lo stesso metodo, ma iniziavo un quadro e non riuscivo a portarlo a termine. L’immagine fotografica che utilizzavo aveva una coerenza che, invano, le mie tele inseguivano. Ero scoraggiato.
Ci voleva uno scossone per uscire da questa impasse?
E’ vero! – Giuseppe Bergomi annuisce e stizza i suoi lunghi occhi da orientale – Nel 1981 vidi al Beaubourg la mostra dei Realismes -1919-1939 curata da Jean Clair. In quel periodo lavoravo ad una tela che ritraeva mio fratello con la sua ex-moglie seduti in spiaggia, tela che da mesi non riuscivo a finire. Alla mostra vidi La Nena, la Donna al sole e Il sogno di Arturo Martini, e due sculture di autori cecoslovacchi: Ritratto della moglie dell’artista di Otto Gutfreund e Ragazza con assenzio di Stefan Bedric, tutte opere in terracotta. In me scattò qualcosa. Immaginai il dipinto a cui stavo lavorando come fosse un scultura in terracotta policroma; stava
lì davanti ai miei occhi. Ma avevo già 27 anni e mi sembrava troppo tardi.
Eri ancora molto giovane. Perché questa perplessità a provare una nuova strada?
La mia preparazione accademica era scarsa, piena di lacune, me ne resi conto quando iniziai a modellare. Andai a trovare un amico scultore,Tullio Cattaneo. Frequentai il suo studio per un paio di settimane cercando di modellare una testa. A quel punto capii che dovevo ricostruirmi un alfabeto. Fu così che mi misi davanti ad un modello e con la sola terra cercai di riformulare una mia estetica. Voleva essere un’esperienza limitata nel tempo per poi tornare a dipingere, libero da condizionamenti fotografici, invece il coinvolgimento fu totale.
Trai ispirazione, fin dall’inizio, dalla tua famiglia, da tua moglie e dalle tue figlie. Come mai questo legame così intenso con le radici, con il passato?
Ho perso mio padre che avevo 14 anni. Questa terribile esperienza mi ha segnato profondamente e ha rinsaldato profondamente i legami tra noi fratelli e con nostra madre. Le immagini della nostra infanzia mi divennero con gli anni, sempre più care, ma fu dopo la mostra degli Iperrealisti a Milano, che cominciai a guardare a queste piccole fotografie degli anni ’50, in bianco e nero, con un interesse pittorico. I dipinti che realizzai con questo tema confluirono, nel 1978, nella mia prima mostra alla “Galleria dell’incisione” di Brescia. Quando nel 1981 cominciai a modellare, mia moglie divenne quasi automaticamente la mia modella insieme a mio fratello e mia sorella. Negli anni con le figlie, questa componente autobiografica si è fatta più forte e continuativa, fino a diventare un atteggiamento che mi ha permesso di costruire l’estetica che ora mi caratterizza. Naturalmente ci furono anche lunghe pause dove i modelli erano altri.
Le tue opere hanno suscitato da subito l’interesse dei critici?
Non con la prima mostra di pittura, quella del 1978, ma quattro anni dopo, con la scultura, uscì sul Giornale di Brescia un entusiastico articolo di Elvira Cassa Salvi, poi Mario De Micheli mi organizzò la prima mostra a Milano, alla “Fondazione Corrente”. Vittorio Sgarbi scrisse in moltissime occasioni nell’arco di questi trent’anni, e poi molti altri. Nacque nel ’85 il primo contratto con Tiziano Forni, poi nel ’90 con la galleria di Philippe Daverio a Milano e nel ’92 Jean Clair, allora direttore del Museo Picasso, che mi invitò come suo candidato per l’importante ” Premio Chateau Beychevelle” -Fondazione per l’arte contemporanea, che vinsi nel ’93. Poi il “Premio Camera Dei Deputati”, nato dalla “Quadriennale di Roma” nel ’97, con una grande mostra a Montecitorio. E’ fortunatamente tante altre manifestazioni, in particolare la mostra al ” Chiostro del Bramante” nel 2005 e a Pietrasanta nel 2012.
Ma per l’artista Giuseppe Bergomi i viaggi sono importanti?
Certamente i viaggi sono stimolanti, ma lo sono molto di più i viaggi nei grandi musei che percepisco come i luoghi più belli del mondo. Lo abbiamo incontrato in occasione delle celebrazioni conclusive di Wondertime, manifestazione fortemente voluta da Rossella Pezzino De Geronimo a cui a partecipato con le sue opere, In quelle situazioni mi prende una straordinaria vitalità e un piacere totalizzante: Il Louvre, la National Gallery, il Prado e così via. Lì ho trovato i grandi amori: Poussin, Vermeer, Veronese,Chardin, Jacob Ruisdael, David, Ingres, Courbet, Degas e potrei continuare. Come vedi non ho citato scultori ma anche qui l’elenco è lungo. Ogni generazione ricostruisce la sua idea di realtà, rivivendo e filtrando l’opera dei grandi maestri. Ogni volta tutto ricomincia da capo.
Cosa consiglieresti ad un giovane che desideri diventare artista?
Consiglierei di pensarci bene. Degas e anche De Chirico dicevano che bisogna scoraggiare i giovani che vogliono dedicarsi all’arte, perché tanto se uno ne sente davvero l’urgenza lo farà lo stesso. Oggi, purtroppo, l’omologazione ad alcuni modelli imperanti è totale e diventa difficilissimo che nascano voci fuori dal coro, non da parte dei giovani che naturalmente basta che guardino con profonda onestà in loro stessi, per trovarla questa voce, ma c’è una realtà indifferente che li aspetta. Se oggi avessi
vent’anni, avrei paura. – Giuseppe Bergomi ride – (Annuisce anche Alma, la moglie dell’artista, che ha seguito con partecipazione tutto il
dialogo, e sorride ieraticamente con i suoi meravigliosi zigomi da slava).
Cosa ti piacerebbe fare dopo tante esperienze così intense?
Vorrei fare cose belle di una bellezza che abbia a che fare con la vita. Vedremo!
Su queste parole, l’intervista si chiude e non resta che ringraziare l’artista e la sua compagna per la loro generosità e gentilezza. Per maggiori informazioni sulla recente mostra di Giuseppe Bergomi e Alma Tancredi c si può andare al link http://etraevents.blogspot.it/?view=classic.