Salvatore Vitagliano: vivo nell’utopia

Salvatore Vitagliano, in arte Sator, ha dedicato la sua vita alla creazione artistica, senza protervia, ma con l’ostinazione dei buoni che non possono fare altro che quello che sanno. Il suo animo, che mantiene un candore raro, sa captare la più impercettibile emozione, come fosse la più sofisticata delle apparecchiature, e distillarla nella sua opera.

Alla Fondazione Brodbeck, a Catania, dove ci incontriamo, la giornata è afosa. Troviamo, in un cortile appartato e graziato dalla calura, il luogo perfetto per iniziare la nostra conversazione.

Domanda di rito: come comincia la tua carriera artistica?

Abbastanza presto, avevo 14 anni. La mia era una famiglia di contadini. Nessuno dipingeva. Ricordo che alcuni dei miei primi quadri ritraevano degli uomini ad un tavolo, poi una natura morta e, infine, delle cipolle. Ho continuato dipingendo il ritratto di mia cugina e un paesaggio: abitavo in un piccolo paese, in collina, circondato dalle montagne. D’inverno, c’era la neve.

I genitori cosa pensavano del tuo talento?

Mi hanno sempre osteggiato. Mio padre diceva L’artista per la fame perde la vista (Salvatore lo sussurra in napoletano). Mia sorella, invece, mi incoraggiava. In campagna, la vita era molto dura. Bisogna badare alla campagna, governare gli animali, aprire e chiudere il pollaio. Ma, lo ricordo, c’era il silenzio. Vivevamo in un borgo isolato dal paese.

Fino a che età hai vissuto lì?

Avevo 7 anni quando mio padre decise di partire per Napoli con tutta la famiglia. Credo che la mia vocazione nasca da questo violento passaggio. Un trauma. Mi sentivo come una pianta strappata via che fatica a vivere. A Napoli, tuttavia, vedo, per strada, i primi quadri: dei paesaggi.

Hai cominciato così a dipingere?

Verso i 14 anni, ho capito che questa esigenza diventava sempre più forte. Andai in giro al Vomero, dove abitavo. C’erano molti pittori e uno di loro, Vincenzo Russo, accettò di prendermi a bottega.

Ha intuito il tuo talento?

Credo che, piuttosto, abbia visto la passione, quel desiderio che non ti lascia mai. Avevo, inoltre, una grande sensibilità verso il colore. Con il tempo iniziai anche ad abbozzare dei lavori suoi.

Cominciavi anche la scuola?

Muovevo i primi passi in quell’ambiente e lì ho avuto la fortuna di conoscere degli artisti importanti. Frequentavo anche l’Istituto d’arte e i miei insegnanti erano dei veri maestri.

Pensi di essere stato influenzato da loro?

Salvatore Vitagliano sorride in un modo disarmante Questa influenza continua ancora adesso. Mi hanno insegnato a guardare all’arte e alla pittura. Uno di questi, Enrico Cajati (1927-2002), mi parlava della quarta dimensione: vedere al di là delle apparenze, al di là della forma bidimensionale. Ci sono quadri di questo pittore che non dimenticherò mai.

Ma la vostra amicizia continuò anche dopo il diploma?

Ho cominciato a partecipare a qualche mostra. Enrico, nel frattempo, mi propose di affittare una stanzetta, come studio, vicino alla sua. Avevo, finalmente, un luogo per dipingere! Pagavo 5.000 lire al mese. Mi procuravo questo denaro vendendo i miei quadri.

Negli anni Settanta, Napoli era una città difficile ma vivissima dal punto di vista artistico.

Erano anni veramente intensi. Ho conosciuto Luigi Castellano, in arte LuCa (1923-2001), uno dei protagonisti dell’Avanguardia artistica napoletana. Era un pittore concettuale, l’artista del popolo per il suo impegno politico. Ho avuto un momento di grande confusione. Ero indeciso se seguire lui o Enrico Cajati. Luca Castellano non era solo un artista geniale ma anche un critico lucido e competente. Era un vero punto di riferimento per gli altri.

Ma parliamo del tuo maestro, Cajati

Enrico era, invece, un uomo che voleva confondersi con il popolo. Viveva ai Quartieri spagnoli e lì aveva trovato, in quella umanità povera e dolente, i suoi compagni di strada che apprezzava anche negli aspetti più triviali. Aveva una capacità di andare all’essenza ed era affascinato da quelli che, a suo giudizio, erano uomini sinceri e veri.

Ma come si conciliava questo voler essere parte del popolo e con la raffinatezza di un artista?

Enrico era un profondo conoscitore della pittura, in particolare, quella napoletana. Ogni domenica, andava al mercato delle pulci e comprava dei quadri che, spesso, liberati dai tarli e dall’incuria, si rivelavano straordinari capolavori.

Ma cosa ne faceva dei quadri che comprava?

Li restaurava. Aveva un vero talento. Ricordo un magnifico quadro da lui acquistato. Era un’opera del Cinquecento. Diceva che imparava da quadri: la tecnica, i colori, le colle. Ogni volta, si apriva un mondo.

Come mai Enrico Cajati non ha avuto grandi riconoscimenti in vita?

Salvatore Vitagliano si commuove visibilmente. Soffre per l’amico e per l’ingiustizia, eterna, da quest’ultimo patita e che non potrà mai essere sanata anche da un riconoscimento postumo.

Enrico non ha avuto successo perché, oltre al talento, serve una capacità di relazione che lui non aveva. Lui era noto per l’aspetto folkloristico, per la simpatia, per la personalità sopra le righe, ma questa macchietta ha fatto dimenticare l’artista.

Ad un certo punto, tuttavia, le vostre strade si dividono?

No. Non è proprio così. Siamo stati amici profondamente. Lui aveva quella capacità di farmi scoprire me stesso. Come Socrate, aiutava a partorire la verità che avevi nell’anima. Lui era così.

Quale altro incontro è stato fondamentale nella tua vita?

A 28 anni circa, ho conosciuto Lucia Improta, una donna straordinaria che mi ha liberato. Nel 1978, mi ero sposato e avevo avuto un figlio, ma, grazie a lei, ho capito che avevo sbagliato e che mi stavo allontanando dal mio sentiero. Ho divorziato.

Il tuo stile ha risentito di questa presenza?

Posso dire soltanto che, è vero, ho cambiato stile di pittura. Non so se attribuirlo solo alla presenza di Lucia o anche alla nascita di mio figlio. Due eventi che reputo altrettanto importanti nel mio percorso di vita.

Cosa significa, Salvatore, che hai cambiato modo di dipingere?

Ho abbandonato i trucchi del mestiere, le piacevolezze per rendere l’opera più sincera. Magari era lo stesso soggetto di prima che riportavo sulla tela ma il mio sguardo era cambiato. Vedevo molto più lontano.

Tornando alla scena artistica, hai lavorato anche con quelli che, all’epoca, erano i nuovi talenti del teatro napoletano

Ho collaborato con Mario Martone, Leo Bernardinis, Antonio Neiwiller. Martone aveva anche girato un breve filmato su di me. E in un suo film, Teatro di guerra, ripreso da uno spettacolo teatrale, si vedeva un mio quadro. Ho lavorato anche con Antonio Neiwiller per un allestimento scenografico in uno spettacolo su Ferdinando Pessoa. Ho creato una sedia che diventava una sorta di spettatore. Questa collaborazione avveniva, posso dire, su un piano quasi letterario.

Ti dedichi anche alla scrittura?

Scrivo e per me la pagina è parte della mia opera. Per questo deve essere concisa, una lettura poetica. Deve dare suggestioni a chi vede i quadri e non spiegarli. Capisco adesso la presenza discreta di alcune cartelle tra le mani di Salvatore.

Abiti ancora a Napoli?

No. Non più. Sono tornato a vivere a Valle Caudina. La casa dei miei genitori iniziava a sgretolarsi e, se avessi aspettato ancora, probabilmente non l’avrei più trovata. Non è stato, comunque, un ritorno al passato. Quando mia padre ha venduto la vecchia casa contadina, avrò avuto 30 anni, per me fu un dramma. Oggi, torno in quei luoghi da straniero. Non riconosco nulla di quello che ho lasciato. Tutto è diverso. Non mi sento campano, non mi sento napoletano. Forse umano, ma è tutto da dimostrare. Salvatore Vitagliano sorride timidamente

A cosa ti stai dedicando in questo periodo?

Vorrei dire la mia in fatto di architettura non spiegando, ma dimostrando.

Scusami, non ho capito bene. Hai iniziato una costruzione?

Mi sto dedicando ad un’opera architettonica e scultorea che vorrei fosse il mio testamento artistico. Lo considero anche un lavoro teatrale. Una scenografia. Sto costruendo il mio paese, un’utopia, che è un luogo dell’anima. Un mondo su misura. Sono partito da un quadro del Quattrocento che raffigura delle case a Napoli.

C’è un profondo investimento emotivo in quest’opera?

Salvatore sorride e un guizzo ironico attraversa i suoi occhi. Da 42 anni, coltivo questa idea. Ogni casa, che costruisco con le mie mani, possiede una sua identità. La più bella, o quella che a me pare tale, è diventata la mia biblioteca.

Ma quante case hai costruito?

Ne avrò costruite venti e devo arrivare a trenta. Ognuna è una piccola stanza con varie nicchie. In paese, i miei concittadini pensano stia costruendo un cimitero. Salvatore Vitagliano ride apertamente

Ma stai lavorando solo a questo progetto?

No. Ci sono dei momenti che abbandono le case e torno alla pittura e alla scultura. Non smetto, comunque, mai di lavorare. Per me il lavoro è l’unica via per una reale crescita spirituale. Mi occupo anche di un noccioleto la cui cura è faticosa. Ma anche quello è un modo per imparare.

La conversazione con Salvatore Vitagliano si è conclusa. Lo ringrazio per il tempo che mi ha dedicato e per la ricchezza che mi ha donato in un pomeriggio di fine estate.

Per chi volesse conoscerne l’opera, la Fondazione Brodbeck ospita la sua mostra L’ombra della casa celeste, Sator, a cura di Gianluca Collica, ven.-sab.-dom- ore 18.00-20.00.