Antonio Presti si materializza, una sera, alla Corte dei Medici, reduce dall’ennesimo incontro e da una valanga di chilometri percorsi perché non sa e non vuole sottrarsi al suo ruolo di testimone. Come regola del blog, per intervistarlo lo sottoponiamo al gioco dei biglietti da pescare a sorte.
Canzone. Sono stato amico di Lucio Dalla. Alcune canzoni le ho molto cantate: da 4 marzo 1943 a, incredibile, ma vero, Attenti al lupo. Mi piaceva il ritornello, proprio martellante. Poi, come succede, ci si allontana e, zac, alcune persone diventano altro: anche sgradevoli.
Acqua. Mi piace molto questa domanda. Io sono acqua per diventare un portatore d’acqua. Sono parole tratte dal Genesi. Mi sembra proprio adatto come concetto ad esprimere il mio compito: rigenerare.
Musica. Non ascolto musica. Non faccio quel tipo di cose, che ne so, andare ai concerti. Mi interessa il suono. Per me è importante il respiro dell’universo: il pigolio di un uccello, l’onda del mare ipnotica, l’agitarsi furioso del vento. Mi interessa la postura del silenzio. Creare uno spazio dentro di me. Forse così si potrebbe tornare ad ascoltare musica. Un ascolto etico, come direbbe Adorno.
Attimo. Mi appartiene interamente quest’idea. Io sono un attimo che mi consegna ad un altro attimo. Non guardo ai minuti, alle ore, ai giorni, per non parlare dei secoli – Antonio fa una smorfia -. La storia mi disgusta.
Cerchio. Circolarità. E’ veramente affascinante. Segno sinuoso senza spigoli né segmenti.
Arte. Non mi piace il concetto di opera d’arte. Quella autoreferenzialità del segno, del lavoro, del pensiero. Si cade, infine, nell’artificio. Ho conosciuto, però, molti artisti. Un vero amico era Tano Festa, un gigante, anche violento quando si abbandonava alla droga o all’alcool. La sua ira scattava di fronte alla mediocrità, alla vita ordinaria. Era capace di distruggere una stanza. La stupidità degli uomini e l’ottusità delle cose lo facevano impazzire. Lo capivo, devo dire. Gregory Corso era straordinario, ma, per tenerlo tranquillo, era necessario tenere una cassa di birra sotto il suo letto. Un altro amico è Valentino Zeichen. Mi dispiace per la sua malattia e per l’ipocrisia e l’indifferenza che emergono ogni volta che un grande uomo si spegne lentamente. Quando Valentino era giovane e bello e viveva nella sua baracca al quartiere Flaminio, frequentarlo era di moda. Giornalisti, intellettuali e belle signore ricche, che non disdegnavano di averlo come amante, erano tutti a fare la fila. Oggi, invece di aiutarlo, punto e pasta, si pensa alla briciola, all’elemosina, alla legge Bacchelli. Che schifo, che insulto per un artista! Spero in un atto di assoluta generosità, restituendo, in minima parte, quello che Valentino ci ha dato con la poesia.
Viaggio. Il mio primo vero viaggio è stato a Tusa. Era morto mio padre. Dopo tante lotte, ho deciso di fermarmi lì. Avevo 28 anni. Ho comprato l’albergo con un mutuo e ho iniziato a sistemarlo partendo dalla mia camera. Avevo acquistato, nella vita precedente, una camera da letto disegnata da Mario Ceroli e pensavo di dormire ancora lì. Poi ho cambiato idea e l’ho destinata agli ospiti. Un operaio in dialetto mi disse: «Miiii, ma che è pazzo? Fa dormire i cristiani in un’opera d’arte?». Quella frase per me è stata come un violento colpo di vento che spalanca una finestra. Da lì è arrivato il monumento, realizzato da Pietro Consagra, per mio padre. Con lui avevo un rapporto tormentato, senza dubbio. Ogni figlio vuole uccidere il padre, nel senso che vuole separarsi da lui. Quell’opera ha avuto un tale significato per me. L’azienda di mio padre vendeva calcestruzzo. Ma con il cemento io non ho costruito palazzi, ho creato arte. Un cerchio si è chiuso.
Formazione. Di getto rispondo che non ne ho avuta nessuna: non ho mai amato i libri. Ma, a pensarci, – Antonio sorride, sornione – non è proprio così. Ci sono state letture importanti, e molto, per me. Ricordo James Hillman, Codice dell’anima e Politica della bellezza e poi Danilo Dolci, l’inventore di quella che io chiamo la didattica della bellezza. Questi ultimi mi hanno fatto capire, a posteriori, cosa stavo facendo e cosa avrei voluto fare. Mi hanno dato, forse, una maggiore consapevolezza. Mi dispiace che, in Italia, non si pratichi la politica della bellezza (direi, piuttosto, il contrario) e non si insegni a scuola con la didattica della bellezza. Danilo era un grande uomo, generoso e puro. Ma la sua lezione è rimasta inascoltata. Non ha avuto quella fortuna che meritava. Per quanto riguarda il cinema – Antonio ride, mentre aspira una sigaretta – non voglio citare i grandi maestri. Che lagna!. Mi limito a fare il nome di Raúl Ruiz. Mi piaceva, lo stimavo e con lui abbiamo realizzato La torre di Sigismondo, una stanza presso l’Atelier sul mare.
Su questa ultima affermazione, la nostra intervista si chiude. Lasciamo andare Antonio che, per niente stanco, è già pronto per la prossima maratona.