Francesco Venezia (1944) si è sempre ispirato alle rovine. Nel costruire e nel realizzare l’ossessione dell’architetto ha vorticosamente ruotato attorno alle macerie, al frammento, all’architettura nuda. La fascinazione per il “non finito” si è così realizzata nel ciclo dei siciliani petits travaux. L’isola ciclope, che mastica e ingoia ogni cosa, ha dato una mano al maestro. Non per le commesse ricevute (poche), ma per lo stato di abbandono in cui versano le sue opere. Il teatro all’aperto a Salemi, ad esempio, in un’altra nazione avrebbe impiegato un secolo per raggiungere lo stesso stato di splendida distruzione. La rovina come metafora dell’Occidente? Nell’epoca del post moderno, in cui i concetti di modernità e di identità sembrano non avere più significato, le rovine permettono all’architettura di assumere, ancora, un senso: isolati nel loro formalismo, i progetti di puro virtuosismo progettati da Francesco Venezia sono rimasti orfani di un contesto, di un pubblico e sono abbandonati a se stessi. Per la prima volta nella storia, la rovina non richiama, quindi, un rapporto col passato e con la memoria, ma col presente. Preparate i fazzoletti, la commozione è assicurata.