In un film realizzato intorno alla fine degli anni Cinquanta, Alberto Sordi aveva sposato una graziosa fanciulla di ottima famiglia che, oltre a possedere tutte le doti della perfetta mogliettina, aveva un ulteriore pregio: deliziava, ogni sera, il coniuge con lunghe suite di violoncello. A metà film, l’amabile strumento volerà giù dal sesto piano, segnalando una irreversibile crisi domestica. Morale della favola: il violoncello non è stato mai considerato ricettacolo di grandi passioni. Non è il romantico pianoforte da chiaro di luna, ma neanche il diabolico e decadente violino. Avesse imparato a suonare tali strumenti, la signora in questione, potremmo pensare, non avrebbe tediato così a morte il povero marito.
Quanti giri di parole per introdurre Giovanni Sollima (Palermo, 1962), violoncellista, nato in una famiglia di musicisti e, già giovanissimo, considerato uno dei virtuosi della sua generazione. Ma Giovanni Sollima ha aperto al violoncello tutto un altro mondo di sonorità. L’ha reso totalmente solista, sensuale e vibrante. Quando lui suona, lo strumento diventa come un prolungamento del suo corpo e i suoni che emette sono elementi primordiali, puro kaos, che l’artista con un evidente sforzo, novello demiurgo, deve ordinare e plasmare. Da “Spasimo” (1995), scritto per l’inaugurazione dell’omonima Chiesa di Palermo, luogo al massimo suggestivo – si immagini una cattedrale del Cinquecento con la cupola aperta a contemplare il firmamento – ad “Aquilarco”(1998), passando per “We were trees” (2008), si arriva a “Caravaggio” (2012), poche tappe di un viaggio lunghissimo e molto più articolato (danza, teatro, cinema) ma evocate solo per raccontare il percorso musicale e umano di un artista non solo da ascoltare, ma anche da vedere perché la sua interpretazione è talmente entusiasmante e sofferta che, alla fine del concerto, lo spettatore è, quasi, esausto come se sul palco ci fosse stato lui tanto l’artista è stato capace di farlo vibrare e commuovere con il gioco delle sue note.