A cena con Mauro Maugeri

Mauro Maugeri (Catania, 1981) è  regista di documentari e, di recente. premiato al Festival del Cinema di Venezia, in coppia con Daniele Greco, per l’opera A lu cielu chianau, un’affascinante immersione nel folklore siciliano attraverso gli occhi dei protagonisti che vivono questi riti non come tristi fantasmi del passato, ma come enzimi catalizzatori dello spirito di una comunità.

Canta una canzone. “Sarà la musica che gira intorno quella che non ha futuro” – accenna Mauro -. Ecco io sono legato a questo tipo di musica. Quella del Festival di Sanremo che ascolti per breve tempo. Secondo me, rievoca il passato in una misura maggiore rispetto ad un classico. Ricordo una canzone di Daniele Groff, Sei tu la mia isola, ecco quella per me è l’estate e le mie sensazioni di tanti anni fa. Ogni volta che la sento, chiudo gli occhi e ho 20 anni.

Viaggio. Il viaggio per chi come me gira documentari è uno stile di vita. Lo è anche quando esco da casa e faccio due passi fino all’edicola. Mi piace avere quest’esperienza, provare quelle impressioni. Non è solo il cambiare luogo, ma lo è pure. Il mio viaggio, per eccellenza, è stato a Lisbona nel 2005. Un mese all’estero da solo. Ho imparato una nuova lingua, ho iniziato un diario di immagini, ho conosciuto il mio migliore amico. E’ stato l’anno in cui ho cominciato a lavorare a MAGMA. Ho capito anche che la fiction non era quello che avrei voluto fare e che il documentario mi avrebbe permesso di sondare l’infinita possibilità del reale: guardare un’onda del mare e illustrare le leggi della fisica. Tutto è in tutto!  – Mauro sorride alle sue parole, ma annuisce -.

Fai un disegno. – Mauro schizza velocemente un occhio (lapsus freudiano ndr) – . Ho cominciato a leggere i fumetti quand’ero ragazzino e ho sognato di diventare un disegnatore, ma non avevo alcun talento. Ero proprio una frana. Ma l’occhio era l’unico soggetto per il quale avessi una minima predisposizione. Non credo sia un caso. Per me l’immagine è fondamentale. Ammiro Wim Wenders. Trovo che Tokio Ga, in cui lui va alla ricerca dei luoghi del maestro Ozu, sia un film eccelso, quasi insuperabile. Per il regista tedesco l’immagine lavora in due direzioni: la realtà che è davanti e che viene filmata e ciò che è dentro di te e investe l’immagine con una carica emotiva quasi esplosiva. In certi registi l’intensità è insostenibile.  Anche Herzog suscita la mia ammirazione. Penso a come sia riuscito a costruire un film di fantascienza sugli alieni partendo da immagini di repertorio della NASA. Alina Marazzi, a proposito di incontro tra interiore ed esteriore, ha prodotto un capolavoro. Rosi ha un grande merito: quello di aver mostrato, in Italia, che il documentario è cinema. Ma gira, come se lui non ci fosse, situazioni in cui è evidente una sua mediazione. Questo approccio, invece, non lo condivido.

Vorrei fare. Un documentario autobiografico,  su cui lavoro da 4 anni, che gira intorno al tema della paternità. Mio padre era un cameraman alla RAI. Curava le riprese per il telegiornale. Non sono mai stato un figlio ribelle, ma  – Mauro si interrompe. É appena arrivata la pizza Apollonio da lui scelta – la mia scelta di lavorare con una cinepresa è di sicuro una sfida verso mio padre. Sto lavorando con immagini di repertorio girate da mio nonno e con altre girate da mio padre. Si è verificata anche una strana coincidenza – Mauro ha un volto elegante e parla in modo misurato. A tradire la sua sensibilità sono solo i folti riccioli che, ogni tanto, scuote – un’amica ha trovato su Ebay la partecipazione del matrimonio di mia nonna e mio nonno! Incredibile! Come sarà arrivata lì? Non so quando finirò questo lavoro. Credo che dovrei diventare io stesso padre per chiudere il cerchio e avere anche un mio punto di vista. .

Cosa pensi ora. – Mauro Maugeri guarda il cellulare -. E’ uno strumento incredibile. Hai una telecamera sempre pronta. Puoi girare sempre, in ogni momento. Questa possibilità mi affascina.  Filmo i momenti della mia vita e poi li monto in una sequenza costruendo un diario, il mio diario.

Formazione. Ho frequentato il Liceo scientifico, come mio padre, – Mauro ride e i riccioli ondeggiano – e non è stata una scelta delle migliori. Andavo malissimo in matematica. All’esame di maturità mi hanno pure chiesto perché avessi scelto quella strada.  Ho frequentato, finalmente, Lettere Moderne a Catania  e lì ho capito che la mia vera vocazione era il DAMS. Sono andato a Roma e ho vissuto lì tutto il periodo universitario. Finalmente, ero lo studente più bravo, quello da cui tutti vogliono copiare. Dopo la laurea sono tornato. Ho iniziato a lavorare per Magma e, nello stesso tempo, ho seguito anche un master in Letteratura ed editoria per ragazzi.  A quel punto è nato il sodalizio con Daniele Greco. Lui è molto diverso da me, ma questa circostanza è la nostra forza. Daniele è tenace. Porta a temine i progetti. Lui vuole raccontare una storia e farsi capire. Io, invece, tengo molto all’impostazione teorica. Sono molto rigido e pignolo. Abbiamo discussioni interminabili (L’aspetto innocente di Mauro rende questa sua affermazione difficile da credere, ma confidiamo nelle sue parole ndr).

Famiglia. Quando ho incontrato la donna che è diventata mia moglie ho pensato che era lei la mia famiglia. Lo siamo insieme.

Arte. Nel mondo del cinema è una parola indicibile, volgare. Sei un artigiano, non un artista. A me, tuttavia, piace pensare di essere un artista. Cos’è l’arte nel cinema? -Mauro si avvicina e abbassa la voce –  Quando esprimi te stesso e dai piacere o, al contrario, provochi fastidio. Per me è tutto lì.

Roma. Studiavo a Viale Marconi e abitavo a Cinecittà.  Vivevo sui mezzi pubblici. La smisurata grandezza della città non mi piaceva. I tempi dilatati all’infinito. Di Roma mi ha affascinato solo lo squallore di certi suoi quartieri con i palazzoni e con quell’odore, mamma mia, sempre uguale. Penso a Pietralata.

Ho fatto. A breve finirò il corso di istruttore di kundalini yoga –  ridiamo insieme davanti alla mia sorpresa ndr -. Fare yoga ha migliorato la mia percezione della realtà. Sento molto di più quell’appartenenza all’Essere cui accennavo prima -Tutto è in tutto – come una consapevolezza profonda e difficile da esprimere a parole. Quando monto le riprese mi capita di trovare una corrispondenza tra un’immagine che si muta in un simbolo e questa percezione intima. Vorrei che, un giorno, questo rapporto fosse esaurito dalla visione stessa. Forse così potrei essere soddisfatto.

Su questo auspicio si chiude la nostra intervista a Mauro Maugeri e vi invitiamo a non perdere il suo cortometraggio A lu cielu chianau. Per altre notizie basta curiosare nel blog omonimo del nostro regista (mauromaugeri.it).